In un’intervista del 1955 per la BBC, Jung, ormai ottantenne, spiegava quella che secondo lui era la differenza tra il pensiero occidentale e quello orientale: spontaneamente riconobbe che il pensiero dell’Oriente era simile alla sua psicologia in quanto profondamente influenzato dai fatti basilari della psiche; così concludeva: “Secondo alcuni, alla nascita, la mente è vuota, una tabula rasa, io invece dico che nella mente c’è già tutto, già da quando nasciamo, solo che ancora non è conscio. E’ presente come potenzialità. Ebbene l’Oriente fonda il suo pensiero su questa potenzialità (…) Dobbiamo fare i conti con il fatto che questo mondo empirico, in un certo senso, è solo apparenza, che è, come dire, connesso con un altro ordine di cose al di sotto e al di là di esso, dove ‘qui’ e ‘là’, non hanno senso; dove non si da estensione nello spazio, il che significa che lo spazio non esiste, e non si da estensione nel tempo cioè il tempo non esiste (…) Una parte della nostra vita psichica si svolge al di fuori dello spazio e del tempo, cioè non è soggetta al mutamento. Queste idee per noi sono deduzioni logiche, ma in India sono patrimonio comune. Leggendo le storie del Buddha nel canone Pali, se ne trovano molti esempi”.

Almeno tutta la prima parte della sua opera, Jung la dedicò alla dimostrazione, su basi empiriche, dell’errata concezione e visione della realtà, da parte dell’uomo moderno: un lavoro di smantellamento di illusioni personali, cioè le ‘proiezioni’, a favore invece, di un’ampia visione. Il contatto vivo con le forze inconsce, infatti ci ridona la gioia di tornare a noi, di essere una persona intera e completa.

Analogamente il buddhismo, religione ugualmente basata sulla coscienza empirica dell’uomo e del funzionamento della mente, si preoccupa di allontanare, anzi di estinguere la visione illusoria (maya) del mondo, la falsa realtà condizionata dalle nostre percezioni sfalsate, soprattutto del sentimento di un ‘me stesso’ separato dalla realtà che a sua volta è un’illusione così come normalmente è interpretata.

Anche qui, giungere alla ‘chiara visione’, significa un’interezza che conferisce all’uomo un valore stabile, cioè un senso. Entrambe sono vie di liberazione attraverso il confronto tra l’Io e l’inconscio, cioè tra ciò che conosciamo e ciò che non conosciamo della psiche; come ci dice Thomas Hoover quando parla dello zen come di una cultura che “è stata elaborata nel corso dei secoli per metterci in contatto con quella parte di noi che in Occidente conosciamo appena”. Più particolarmente si potrebbe dire che la base comune delle due ‘vie’, è lo studio e la conoscenza del proprio Sé, cioè del risultato di questo contatto e confronto con ‘l’altra parte’. Infatti “il contrasto delle posizioni degli opposti comporta una tensione carica di energia che produce qualcosa di vivo, un terzo elemento che non è affatto, secondo l’assioma ‘tertium non datur’, un aborto logico, ma è invece una progressione che nasce dalla sospensione dell’antitesi”.

L’antitesi è la coscienza che per farla da padrona si oppone alla tesi, che è data, cioè l’inconscio che è eterno e infinito; nel riconoscimento attivo dell’inconscio l’Io si fa partecipe, e come antitesi produce un arresto della propria volontà; “l’atto del volere infatti diviene impossibile, poiché ogni motivo si trova dinanzi ad un motivo opposto che ha uguale forza ed intensità”. Come nella meditazione, l’inattività della coscienza risveglia l’attività dell’inconscio provocando una sintesi, che nel senso più profondo può essere denominata Sé. Il buddhismo parte da questa realtà e la psicologia di Jung la riconosce come naturale compimento dell’opera di trasformazione spirituale.

Lo studio e la pratica della via del Buddha è lo studio e la pratica del proprio Sé. Come ebbe a dire lo stesso Jung: “Compresi la vita del Buddha come la realtà del Sé che tende a una vita personale e lo esige totalmente. Per Buddha, il Sé sta al di sopra di tutti gli dei, rappresenta l’essenza dell’esistenza umana e del mondo in genere. Il buddhismo subì la stessa trasformazione del cristianesimo. Buddha divenne, per così dire, l’immagine del compimento del Sé, divenne per gli uomini un modello da imitare”. Uchiyama ci illustra come nei Sutra e nei commentari troviamo molte parole, apparentemente diverse per designare sempre un’unica idea, il Sé universale: esse possono essere espressioni come ‘natura di Buddha’, ‘un Solo Cuore’, ‘Advaita’ (non dualità), ‘Essere così’, ‘Nirvana’, ‘Cammino di Mezzo’.

E Jung si preoccupa molto di tradurre e comunicare le idee di fondo che stanno dietro alle parole: “Nel mio lavoro, io non ho fatto altro che dare nuovi nomi, a quelle realtà. Prendiamo, per esempio, la parola ‘inconscio’: ho appena finito di leggere un libro di un buddhista zen cinese, e mi è sembrato che tutti e due parlassimo della stessa cosa, e che l’unica differenza tra noi fosse che ciascuno dava un nome diverso alla medesima realtà. Perciò l’uso della parola ‘inconscio’ non ha importanza, ciò che conta è l’idea che sta dietro a quella parola”. Ciò che spinse Jung, fin da giovane, a penetrare tanto in profondità, fu l’esigenza di capire, per poter aiutare se stesso e gli altri, esattamente come lo fu per Buddha Shakyamuni.

I suoi obiettivi divennero l’interezza della personalità dell’uomo e la realizzazione della sua natura profonda, superando quindi quelli relativi alla sola cura dei sintomi, cioè oltrepassando gli obiettivi solo terapeutici, poiché con la psicoterapia, diceva, veniva sollevato “un problema che va molto al di là dell’ambito medico specifico, e al quale conoscenze soltanto strettamente mediche non possono rendere giustizia”. Oltrepassando la soglia degli eventi insoluti dell’individuo, cioè del suo inconscio personale, quel ‘magazzino’ oscuro di desideri rimossi, il riduttivo inconscio freudiano, Jung si addentra nella vasta dimensione di quello che i buddhisti chiamano ‘Mente Universale’ o ‘Immutabile Saggezza’ cioè l’inconscio comune a tutta l’umanità, l’inconscio collettivo.

La scoperta dell’inconscio collettivo va di pari passo con la presa di coscienza della sua dinamica, con le ‘strutture’ che determinano e modificano i nostri comportamenti: cioè gli archetipi. “L’archetipo è la ‘forma’ introspettivamente riconoscibile di un ordinamento psichico ‘a priori’; per esempio il comportamento di un qualunque uccello o insetto segue uno schema, e lo stesso vale per noi: “L’uomo ha un certo schema che lo rende specificatamente ‘uomo’ e nessuno ne nasce privo. Siamo profondamente inconsci di questo fatto solo perché tutti noi viviamo attraverso i nostri sensi e proiettati verso l’esterno; se fossimo capaci di guardare dentro di noi lo scopriremmo”.

In situazioni ottimali gli archetipi forniscono i contenuti psichici basilari e stabiliscono la direzione; sono fossili di esperienze millenarie sedimentate, sono ‘motivi’ il cui contenuto è il sapere del mondo, e costituiscono perciò “L’immutabile”. Nello stato di equilibrio l’Io e la coscienza guidano i processi archetipici, nel loro insieme, “per aiutare e realizzare gli scopi che la psiche contiene inconsciamente”. Come dire che ogni processo che viene innescato nella psiche conosce intrinsecamente la sua destinazione, essendo stato lungamente in incubazione nell’inconscio. “L’archetipo è in Sé un elemento vuoto, formale, nient’altro che una ‘facultas praeformandi’, una possibilità data a priori (…) Le ‘forme’ sotto questo aspetto corrispondono agli istinti.

L’uomo comune è incapace di vedere oltre la Forma. E’ incapace di vedere l’Incarnazione”. Cioè, l’uomo comune non sa vedere come le strutture archetipiche dell’inconscio collettivo creino forme intese come ‘senso dell’istinto’; l’archetipo stesso diventa l’Incarnazione. Buddha è l’Incarnazione dell’archetipo del Sé. Tutte le forme sono incarnazioni del Vuoto, e il vuoto è la ‘struttura’ delle incarnazioni, proprio sulla base dei principi archetipici. Così il samurai Miamoto Musashi dice che “praticando la forma si percepisce il Vuoto” (Ku); e l’Hannya Shingyo (Sutra del Cuore), il testo fondamentale del Soto Zen insiste, a sua volta, sullo stesso punto affermando che “i fenomeni non sono diversi dal vuoto e il vuoto non è diverso dai fenomeni”.

Il Vuoto è proprio la ‘possibilità data a priori’ degli archetipi, non ancora manifestata, è in potenza, ma, appunto, vuoti, senza una realtà propria e indipendente. Vediamo perciò, come anche l’Io sia un sistema o un ‘complesso’, che non sussistendo di per se, non avendo una sostanza propria permanente, ma anzi dipendente da tutto, è considerato un evento, un fenomeno anch’esso vuoto, opposto alla forma, equivalente dunque a un ‘non-Io’; paradossalmente è anche l’opposto di se stesso cioè Io e non-Io si equivalgono come qualunque altra categoria di contrari. Perciò quando nel buddhismo zen si pongono domande sulla natura del Buddha o su altre importanti questioni, i maestri spesso elaborano esercizi atti a stravolgere la mente razionale limitata, rispondendo col contrario concettuale o con argomenti che non hanno niente a che vedere con la domanda, perché la domanda presuppone una dualità che non esiste e richiede una risposta logica che va contro la reale struttura della mente ‘prima della nascita’, cioè in opposizione all’inconscio, perpetuando l’Io, anziché accantonarlo. Per questo nello zen si parla di abbandonare la nostra erudizione, di abbandonare la nostra mente cosciente, quando invece è proprio questa mente che cerca la mente; dice Huang-Po: “Usare la mente per cercare la mente senza vedere che la mente e l’oggetto della sua ricerca sono la stessa cosa. E’ un inganno credere di cercarla altrove”. E per Jung la mente “non ha possibilità di interloquire in una dialettica psicologica, in quanto è lo stesso oggetto investigato”. O ancora, con Lin-Chi: se un uomo ricerca Buddha, quest’uomo perde Buddha”. L’Io vive nel tempo e nella causalità, mentre lo zen, come dice Watts, “inizia al punto in cui non c’è più nulla da cercare, nulla da guadagnare”, essendo tutti i fenomeni vuoti, effimeri, non avendo la vita uno scopo preciso dui cui l’Io possa impossessarsi.

L’intuizione dunque è la facoltà creatrice che funziona come sintesi dei due sistemi conscio-inconscio che ormai non agiscono più come sistemi scissi e contrapposti. Impossibile quindi avvicinarsi allo zen con la mente, perché lo zen è non mente, lo zen parte dalla realtà del Sé, lo zen è natura originaria, non-nata, non creata, indivisa. Questo processo di trasformazione inverte la tendenza solamente evolutiva, tipica della prima età della vita, “non però nel senso che produce una disintegrazione dell’Io e della coscienza, al contrario esso porta a un’espansione della coscienza attraverso la riflessione dell’Io su se stesso, riportandolo alla dimensione di strumento della totalità”, strumento del Sé. Anche le pratiche religiose tentano di portare la coscienza al punto di non essere più influenzata dalle cose esterne, lasciandola disponibile, “vuota, aperta a un’altra influenza. Quest’altra influenza non sarà più sentita come un’attività propria, ma come opera di un non-io che ha la coscienza come oggetto (…). Questo capovolgimento rende la nostra esistenza inconscia reale e il nostro mondo cosciente una sorta di illusione, o una realtà apparente simile a un sogno che sembra realtà finché vi siamo dentro. E’ chiaro che questo stato di cose rassomiglia molto da vicino alla concezione indiana del Maya”. Ecco perché Dogen dice che studiare il buddhismo è studiare se stessi, cioè la propria autonatura, e studiare se stessi è dimenticare se stessi. Un antico poema recita così:

E’ la mente stessa che conduce fuori strada la mente; non lasciare che la mente ti sfugga dalla mente.

Per dirla con Huang-Po “Poiché la nostra mente è inceppata da essi (i concetti dualistici) si deve girare la Ruota della Legge”. Così nel Rinzai Roku: “Le male passioni insorgono a causa della mente; se non avete mente, quale male passioni potrebbero legarvi?” L’energia liberata, non legata, non ostacolata, che Jung chiama ‘libido’, quando riposa in se stessa, quando torna alla sua dimora, si riconosce come autonatura ‘increata’ e sposta il centro di gravità da Io a non-Io.

Nelle profondità della meditazione, l’introversione della libido sacrificata al mondo si inabissa e il soggetto è come interrato; l’energia di chi è immerso in se stesso è quasi spenta; Deschimaru paragona lo zazen all’entrata nella nostra bara, la volontà fa spazio al Mushotoku: è lo stato di ‘mushin’, “letteralmente significa ‘nessuna mente’ cioè nessun Io. Si intende con ciò che la mente che non pensa è in uno stato di equilibrio, se non perturbata dalla pressione dei pensieri. Nello zen ci addestriamo a ristabilire l’equilibrio in ogni momento. Quando le pressioni dei pensieri a cui è soggetto l’Io, sono dissolte, l’Io svanisce e c’è il vero vuoto”. Il non-pensiero è pensiero ‘al di sopra del linguaggio’, un pensiero vuoto che fluttua secondo il proprio peso. Anche per Dogen lo stato di equilibrio è il ritorno a se stessi mediante la pratica dello zazen, la realtà della vita al di là di tutte le definizioni, una psiche indivisa, un’unione degli opposti che è pensabile solo come loro annullamento. Quando lo spirito finito comprende di avere le proprie radici nell’infinito, il Sé si risveglia, diviene il ‘contenuto vissuto del risveglio’, o come dice Jung “si riconosce che Buddha non è altro che la psiche del meditante stesso”.

Questa relatività di spazio e tempo, sembra aumentare a misura che ci allontaniamo dalla coscienza, fino a giungere ad una assoluta atemporalità e aspazialità”. Anche vicende interne comuni come sogni, presentimenti ecc. trovano corrispondenza nella realtà esterna. “Queste vicende di simultaneità sembrano essere legate a processi archetipici nell’inconscio come se spazio e tempo fossero in rapporto con condizioni psichiche, o che in se e per se non esistano affatto, e siano ‘posti’ solo dalla coscienza”, cioè dall’attività discriminate della coscienza che forma coordinate indispensabili per la descrizione dei corpi in movimento.

Così come nella meditazione profonda il ‘movimento’ si arresta quando la psiche non osserva più i corpi o i fenomeni, ma si autosserva, si autoriflette e conosce se stessa.

“Se mi so unico nella mia combinazione individuale – diceva Jung – vale a dire limitato, ho la possibilità di prendere coscienza dell’illimitato (…) Avere figli, una carriera; tutto ciò è Maya in confronto a quell’unica cosa: un’esistenza che abbia senso”. Il senso per Jung viene dalla partecipazione soggettiva agli eventi archetipici; sentiva che l’uomo ha un disperato bisogno di una vita simbolica che potesse esprimere i bisogni dell’anima, bisogni che la nostra anima manifesta ogni giorno.

Si interessava di quegli aspetti dell’esistenza, che come per la saggezza buddhista si possono osservare direttamente; fu uno dei primi in Occidente a riconoscere che per la filosofia indiana, il buddhismo, fino allo zen passava lo stesso filo conduttore: il confronto con l’inconscio. L’Oriente, infatti, fu una delle costanti più significative dl suo pensiero; con altri termini espresse le stesse cose del Buddha: che la redenzione è emancipazione dal Samsara; che la sofferenza è la falsa attività della mente, e il Nirvana la libertà completa; come Buddha, Jung si occupò della sofferenza intesa come patologia cioè ‘logos del pathos’. Sosteneva che “una accresciuta conoscenza della spiritualità orientale può divenire per noi l’espressione simbolica del fatto che cominciamo a entrare in relazione con quanto ci è interiormente estraneo: in altri termini costituisce l’annuncio di una ricerca personale tesa a meglio cogliere ciò che si muove nel nostro inconscio”. Dopo di lui tutti gli sforzi fatti per raggiungere un’obiettività da parte degli approcci psicologici trans-personali si basano sulle sue premesse. Per questo si può dire con James Hillman “al di sotto di tutte le sollecitazioni a crescere e sviluppare, creare e produrre, c’è il bisogno di salvare la propria anima in un modo o nell’altro (…) per mezzo dello zen, di Freud o di Jung. Tramite l’esperienza diretta resa possibile in analisi facciamo ciò che disse il Buddha ‘Lavora con diligenza alla tua salvezza’”.

Si ringraziano :

Ed. Boringhieri – Ed. Sé – Ed. Ubaldini – Ed. Adelphi – Ed. Rizzoli – Ass. Italiana Soto zen – Ass. zen internazionale

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