Fuori

Come ci siamo detti tutto

di niente

in questa notte banale,

e la pioggia è uguale

ovunque

hanno inventato tutto per

dimenticare.

Fuori fa freddo

ma l’estate ha lasciato i suoi segni,

sul muro

proprio là

una vecchia zanzara spiaccicata.


Le altre di “Crossroad Blues”

Crossroad Blues

Mildred

Mildred

Ho viaggiato con Mildred è vero, distesa, piatta-lunga-azzurra forse un pò emaciata ho accompagnato Mildred…
Ora

Ora

Al tramonto i profumi sono ancora presenti, mi ero commosso ieri come oggi al canto…
And so

And so

And soE così,così presi accordimentre eravamoin voloo pista,viaggio virtualemobilee infine rossoe arancioche sta così e…
Roma

Roma

Luce, riflessi mediterranei di un’angoscia primaria riflessa su stralci d’infinito nel quotidiano ripetersi infinito di…
Buddha

Buddha

Lunghi pensieri solcano l’età della vocazione e dell’avventura. Una media cresta sfavillava a mezzogiorno mentre…
Aria

Aria

Corridoio ecologico, lo han chiamato per dove le rondini ti passano a un palmo del…
Ciro

Ciro

Scusa se non ti ho messo al mondo. Avresti ereditato la mia malinconia, forse anche…
Vino

Vino

Sfinito ho continuato quel lavoro al di sopra delle mie forze. Mi sono lasciato sfinire…
Sera

Sera

Dolce la sera nella maledetta morsa del destino chilometrico metafisica luce di destinazioni fatali ora…
Berlino

Berlino

Sotto l’angelo d’oro Lo sterminio e pazzi mattoni Uno su l’altro Puzzle immaginifico Allez klar…
Frutti

Frutti

Come l’Autunno l’amore I suoi frutti – dolci- mi era stato detto, giusto si manifesta…
Eco

Eco

Ben presto è solo con me che voglio restare e udire l’eco dei giochi giocati,…

Passioni al Borgo

in collaborazione con :

Associazione Culturale Spazio Interattivo – Blera (Vt)

Multipiattaforma digitale “Jungmandala”


In sordina come ‘Start Up’ di un progetto culturale derivato dal libro “C’era una volta un ribelle” di Raffaele Santilli, edito dall’editore Anicia di Roma, s’è dato il via all’iniziativa “Festival dei linguaggi poetici”, considerato dai promotori l’inizio di un processo culturale denso di manifestazioni soprattutto per quei giovani che in luogo di subire passivamente le trasformazioni sociali vogliano avere la possibilità di elaborare le proprie esperienze attraverso la conoscenza di ciò che li ha preceduti.
Il Festival, alimentato da video e convegni inerenti agli argomenti dibattuti, vuole altresì porsi come un trampolino di lancio di una serie di proposte che coinvolgono artisti di vario genere e che operano soprattutto nelle forme della poesia e letteratura, musica, pittura, scultura, video, fotografia, artigianato.

In questo primo evento sono stati scelti 5 artisti della Galleria “Arte e Follia” di Blera (Vt) ognuno rappresentante una tipologia diversa (puoi cliccare sul nome per aprire la sua pagina e conoscere meglio l’artista) :

Enzo Ferraro

Musica

Luisa Carnebianca

Artigianato

Luana Cianti

Poesia


A partire da sabato 31 ottobree sino a sabato 7 novembre gli utenti possono esprimere una scelta tra i 5 artisti collegandosi direttamente al link sottostante :

Festival dei linguaggi poetici

Domenica 8 novembre in streaming video una giuria premierà l’artista che avrà ottenuto più preferenze e vincitore in forma “amicale” considerato il numero ancora limitato di partecipanti, tutti per lo più aderenti al nuovo spazio espositivo di Fabio Berlenghini “Arte e Follia” di Blera (VT).

L’andamento delle preferenze potrà essere sempre visionato in ogni momento nelle pagine web dedicate nei portali di :

Spazio InterattivoJungmandala

Agli artisti partecipanti verrà rilasciato in formato digitale un riconoscimento per la partecipazione all’evento.

Nell’intenzione dei promotori c’è il coinvolgimento di altri Comuni della Tuscia per creare finalmente una rete culturale viva capace di fare emergere e sostenere le varie forme culturali presenti in un territorio storicamente denso di significatività.

Festival dei linguaggi poetici

Il Progetto culturale “CAMELOT” vuole essere un luogo di incontro tra linguaggi tradizionali e linguaggi innovativi, un luogo di immaginazione e scambio, un luogo di “circolazione di idee” e di curiosità, di diffusione di messaggi culturali e spirito di autenticità, una Tavola Rotonda intorno alla quale ritrovarsi per contrastare l’omologazione e il pensiero unico dando voce a tante situazioni permettendo a tanti di esprimersi, arricchendo se stessi e la propria conoscenza così da leggere meglio ciò che accade intorno a noi.

Attraverso le sue iniziative l’Associazione vuole promuovere così un pellegrinaggio nelle terre dell’arte e dello spirito seguendo metaforicamente quel pellegrinaggio culturale e spirituale che nel viterbese ritroviamo anche con l’antica eredità della Via Francigena, lungo il tracciato della quale si sono sviluppati incontri tra culture e scambi di esperienze che nel corso dei secoli ha dato luogo al concetto stesso di Europa. Nel 1994 la Via Francigena ha ottenuto dal Consiglio d’Europa la nomina di Itinerario culturale e il 2019 è stato proclamato Anno nazionale del Turismo Lento (D.G.R. 771 del 14-12-16), la riscoperta della tipicità dei luoghi e di ciò che hanno da offrire come filosofia del vivere applicata al viaggio e al coinvolgimento. Nella Direttiva del Ministero dei Beni e delle attività culturali e del Turismo, in collaborazione col mondo dell’associazionismo, si parla di aspetti che furono propri della concezione del Romanticismo europeo e del Trascendentalismo americano del XIX secolo, nonché di aspetti del movimento della Beat Generation come eredità culturali il cui patrimonio rientra nei diritti degli individui attraverso la loro libera partecipazione alla vita culturale della comunità e il godimento delle arti nella loro evoluzione, desiderando sostenerne i valori e gli aspetti specifici da trasmettere alle generazioni future. La stessa Direttiva prevede infatti la “realizzazione e implementazione di studi, progetti e modelli organizzativi in grado di contribuire alla valorizzazione dei cammini e alla loro funzione culturale e turistica…”, individuando quei Comuni capaci di distinguersi per l’attenzione rivolta al turismo lento e sostenibile, la metafora del quale si fa itinerario interiore, rigeneratore naturale e culturale, un ritorno verso la fonte originaria degli avvenimenti che ci inducono a riconquistare il nostro essere umani.

IL PROGETTO

LA PREMESSA (Analisi del contesto)

Da un’indagine svolta sul territorio si rende evidente che uno specifico turismo laziale, in particolare quello del territorio viterbese e quello del territorio romano, trovi particolarmente interessante e piacevole avere occasioni per frequentare il paese di Blera. Tali occasioni però non si presentano molto spesso spontaneamente, ma hanno bisogno di essere stimolate da motivi ludico-culturali. Si vuole cioè asserire che tale genere di turista trovi piacevole frequentare Blera quanto più quando ve ne sia un motivo di interesse, culturale o di svago.

Da alcuni anni la manifestazione “Blera Rock” ha catalizzato, oltre la popolazione residente, un non indifferente numero di visitatori durante il solo mese di Agosto senza però avere ulteriori riferimenti sull’argomento che andrebbe invece approfondito, divulgato e “commercializzato” anche in altri momenti dell’anno .

Il progetto che qui si presenta vuole coniugare svariati interessi sul tema sia in termini di cultura che di svago attraverso eventi che mirino a coinvolgere sia il turista fisso che quello occasionale.

Tale coinvolgimento riguarda soprattutto due aspetti: il primo è realizzabile mediante lo sviluppo di temi culturali specifici espletati attraverso tecniche di comunicazione di tipo documentaristico dal vivo e multimediali; il secondo riguarda il coinvolgimento in prima persona mediante il sentirsi protagonisti attivi nel presentare le proprie forme espressive che vanno dalla musica alla pittura e dalla poesia alla fotografia veicolate da un Festival-concorso.

Dunque la prima parte del progetto è orientata a beneficio di chi guarda e ascolta, come un’introduzione culturale dei temi in questione, mentre la seconda parte prevede l’intervento attivo di coloro che vorranno aderire al “Festival dei Linguaggi Poetici” come un Concorso che premia le migliori espressioni artistiche.

Le basi di entrambi i momenti le ritroviamo negli attuali interessi popolari che tendono a riscoprire i valori dell’arte nonché i suoi riferimenti filosofici e psicologici.

Un Concorso questo, rivolto soprattutto ai giovani, costretti a subire le trasformazioni di una società che va più veloce di ogni elaborazione e assimilazione delle esperienze e dei loro contenuti.

Attraverso incontri, dibattiti e manifestazioni culturali si vuole così contribuire a mantenere viva la fiamma dei movimenti artistico-culturali fondati sulla ricerca.

Per tentare questo innesto culturale ci si riferirà all’ultimo grande movimento storico che è quello giovanile iniziato alla fine degli anni Cinquanta, perché è soprattutto dei giovani che si vuole parlare in quanto “futuro”, in quanto generazione a cui ci si deve rivolgere per elaborare quei sentimenti che determinarono gli attuali gusti e costumi in contrapposizione alla cultura del pensiero unico e tutte quelle mostruosità che, per dirla con Fernanda Pivano, “gettano i più giovani in quell’incertezza esistenziale che annulla l’importanza della vita dell’individuo”.

Si sta dunque parlando soprattutto di cultura della pace.

STORIA DEL PROGETTO

Il Progetto nasce dai contenuti del libro di Raffaele Santilli “C’era una volta un Ribelle”, la linea guida del quale è tesa a comunicare, elaborandolo in forma compiuta e culturalmente intellegibile, l’intreccio delle tematiche e la grande varietà degli avvenimenti socio-culturali riguardanti la ricerca delle avanguardie artistiche soprattutto nel periodo storico che va dal dopoguerra agli anni Ottanta, specie negli Stati Uniti d’America, in Inghilterra e in Italia, ritenuti anni di grandi trasformazioni sociali, in quanto hanno determinato nuovi modelli di pensiero, di percezione della realtà e di sensibilità sociale che ancora continuano a influenzare le nuove generazioni.

TEMA DELL‘ARGOMENTO

Influenzati dalle ricerche di Freud e Jung, e dalla cerchia di quegli scrittori che avevano spostato la loro attenzione dalla società all’indagine sulla natura della coscienza, gli artisti del secondo dopoguerra americano ed europeo si resero conto ben presto che per affrontare le loro incertezze e frustrazioni, i loro riferimenti filosofici e artistici dovevano addensarsi su quegli stessi presupposti che più tardi li avrebbero introdotti alla conoscenza del pensiero orientale.

La consapevolezza di vivere in un mondo troppo difficile per loro trascinò questi ‘beat’ verso un’utopica ribellione che però aprì la strada a nuove possibilità, nuove idee, nuove forme di vita e nuovi modelli di pensiero, i valori dei quali si riscontrano nell’attuale pensiero diffuso.

A partire dagli anni Cinquanta tutte le forme d’arte divennero manifestazioni dell’indagine sulla natura umana attraverso forme espressive spontanee che andarono a sviluppare una nuova coscienza dando vita a una contro-cultura che a partire dalla California dei ’60 fiorì fino a determinare un’identità collettiva fondata sulle libertà.

Viene ricostruita così la sintesi di quella forma di ribellione pacifica pilotata dalla poetica di Ginsberg e Kerouac che, passando dal Jazz e dall’avanguardia artistica del Novecento fino a coinvolgere il movimento giovanile degli anni Sessanta e Settanta, il Rock nelle sue varie forme includendovi la ricerca spirituale che passò soprattutto per lo Zen, volle investigare e stimolare la coscienza, gettare uno sguardo in profondità e fare personalmente l’esperienza di come stiano realmente le cose per liberarsi dai vincoli del mondo conosciuto, dal dolore e dalla frustrazione.

Secondo Jung, questa pericolosa tendenza all’investigazione psicologica è un’audacia che non può non suscitare ammirazione e simpatia, perché non si tratta di un’eccentricità o di un capriccio, ma si tratta invece della più profonda delle necessità psicologiche, quella di trovare il significato della vita.

A partire dalla storia di un contesto artistico e culturale ormai di indiscussa importanza, viene ricostruita qui una struttura di contenuti che ne hanno edificato le fondamenta fino a collegarsi con lo spirito stesso della vita e dell’anima umana.

Il libro C’era una volta un Ribelle rivestirà così la funzione di contenitore culturale attraverso il quale apprendere ed elaborare quella cultura che ha immediatamente preceduto l’attuale società e ne ha determinato i valori, i costumi e i significati, promuovendo la riflessione e il confronto intorno alle radici storiche di avvenimenti che hanno determinato una creatività che non è scomparsa ma è, forse inconsapevolmente, ancora viva sotto molte forme.

Antichità, modernità e attualità si confrontano in un progetto in cui il fattore creativo rimane sempre quel veicolo di progresso che ci induce a riflettere su cosa sia stata e su cosa sia oggi la cultura e il benessere.

Il progetto “C’era una volta un ribelle” nasce e si sviluppa in forma didattico-pedagogica per promuovere le varie forme espressive come la musica, la poesia, la prosa, il teatro e le arti plastiche come canali fondamentali per la diffusione delle idee e della cultura.

L’aspetto pedagogico del progetto utilizza i contributi di varie fonti capaci di mettere insieme una rete di conoscenze che ha come caratteristica quella di indagare e accogliere i linguaggi poetici e la dimensione estetica come elementi rilevanti per l’apprendimento nonché lo sviluppo della creatività e dell’immaginazione.

NATURA DEL PROGETTO

Il progetto “C’era una volta un ribelle” promosso dall’Associazione CAMELOT vuole creare un contenitore culturale in grado di attivare una serie di energie capaci di promuovere e valorizzare il territorio su scala regionale e nazionale, recuperando la naturale vocazione culturale e artistica, facendo vivere in modo inedito gli spazi espositivi e rafforzando la cooperazione fra operatori culturali e artisti.

Il Progetto ha come caratteristica quella di accogliere i linguaggi poetici e la dimensione estetica come elementi rilevanti per l’apprendimento nella vita e nella nostra attuale forma di civiltà con rimandi al passato e includendo la domanda di cosa sia rimasto oggi di quel dato periodo; la gioventù di oggi conosce l’origine della sua presunta libertà e dei suoi gusti artistici e musicali? Si vuole così coniugare un periodo storico prolifico e fecondo con l’attualità, nel desiderio di renderci consapevoli dei valori artisti che di volta in volta dominano la scena culturale e scorgere eventuali figliolanze con quel periodo.

FINALITA’ DEL PROGETTO

-Presentare un prodotto che in luogo di trattare separatamente gli argomenti, possa connetterli e integrarli tra loro dandone una visione coerente e unitaria.

-Rendere più edotte e culturalmente più informate e preparate le nuove generazioni.

-Compiacere e dare soddisfazione a chi già conosce gli argomenti trattati o un singolo argomento allargando i propri orizzonti culturali

-Far recuperare a chi ignora l’argomento un nucleo storico articolato colmo di rimandi culturali che a loro insaputa ha determinato un’importante influenza sociale e personale.

CONTENUTI DEL PROGETTO

-Storia dello sviluppo dei costumi giovanili del dopoguerra americano/europeo.

-Storia della letteratura fondamentale che ha influenzato questo sviluppo.

-Storia della musica che ha influenzato e accompagnato questo sviluppo.

-Storia dell’arte che ha influenzato e accompagnato questo sviluppo.

-Storia dei movimenti psicologici e filosofici che hanno determinato e influenzato le forme essenziali di questo sviluppo e lo hanno analizzato.

-Storia dell’influenza orientale sull’arte, su i costumi, le abitudini, le attitudini, i comportamenti e la ricerca religiosa.

STRUTTURA DEL PROGETTO

Il Progetto prevede una presentazione didattico-multimediale del libro di Raffaele Santilli “C’era una volta un ribelle” come prima parte divulgativa del tema attraverso una struttura composta da voce narrante, voce recitante e voce fuori campo, foto di repertorio e d’epoca, musiche di sottofondo appropriate alle immagini, musiche di sottofondo appropriate alla narrazione, “spezzoni” di film esistenti ed eventuali “spezzoni” di filmati d’epoca.

Una seconda parte è affidata al Festival dei linguaggi Poetici (vedere allegato)

RISORSE DEL PROGETTO

Il Progetto è articolato in modo da penetrare una vasta gamma di argomenti (musica, poesia, letteratura, pittura ecc.) tra loro connessi che a loro volta danno luogo a nuove argomentazioni e forme divulgative allargando ogni argomento trattato approfondendolo o tornando indietro nel tempo fino alla loro origine.

I principali argomenti da condividere e sviluppare in separate sede riguardano:

-Lo sviluppo dell’arte moderna

-Lo sviluppo musica moderna

-Lo sviluppo dell’espressione poetica moderna

-Le origini, lo sviluppo e la pratica dello Zen

Inoltre sarà possibile selezionare delle pellicole cinematografiche (DVD) per una rassegna a tema destinata a una manifestazione sugli argomenti .


Pollock

Dopo il 1943, anno della creazione di “Mural”, diventa impossibile individuare forme distinte nelle pitture di Jackson Pollock, che porterà il gesto creativo al di là di ogni certezza interpretativa e ponendolo oltre la sfera personalistica nell’assenza di qualsiasi forma speculativa. Ciò che ne resta è una memoria corporea in uso a immagini simboliche della caotica sfera dell’inconscio che si agita come in un caos incandescente della “prima materia” pronta per ricreare un’interezza della personalità che forse non arriverà mai.

L’analisi con lo psicologo junghiano Joseph L. Henderson che risale a pochi anni prima, aveva prodotto immagini simboliche di cui si rendeva necessario decifrarne i contenuti, soprattutto per l’afflusso di fantasie che sono state oggetto di svariate interpretazioni. Lo stesso Pollock, sollecitato dalle teorie junghiane sugli archetipi, descriveva la sua opera attraverso concetti psicanalitici piuttosto che criteri estetici. La teoria degli archetipi di Jung eserciterà una forte influenza presso molti artisti dell’epoca per via delle immagini inconsce che sono comuni a tutta l’umanità e non solo alla singola individualità. Queste immagini mitiche sono indipendenti da razze e culture, talché offrirebbero agli artisti la possibilità di realizzare un’arte universale, un’idea questa che aveva già spinto molti di loro a rivolgersi alle culture primitive in genere.

Mark Rothko aveva dichiarato che l’arte arcaica e la mitologia attingono all’inconscio e ai sogni, manifestando simboli di istinti primordiali. Nonostante molti artisti aderissero a tali teorie e si rivolgessero all’arte simbolica di nativi americani come i Navajos, Pollock non voleva limitarsi a produrre un’arte autonoma americana, riconoscendo che i problemi essenziali della pittura contemporanea erano indipendenti dai personalismi. L’eredità storica europea da cui si sentivano imprigionati dunque, sarebbe stata infranta proprio in virtù delle teorie junghiane che lasciavano aperte infinite possibilità psichiche costantemente connesse con la natura umana collegata al flusso dell’inconscio e che l’artista avrebbe proiettato sulla tela con l’immediatezza intuitiva di un bambino.

Con ‘Mural’, Pollock pone le basi di un universalismo pittorico che paradossalmente e proprio per questo diverrà il mito della solitudine e dell’incontro tutto personale con la propria profonda identità. Kirk Varnedoe dirà più tardi: “Era il gennaio di un grigio inverno tormentato dalla guerra, e in nessun altro luogo nasceva qualcosa di paragonabile per originalità e forza espressiva”.

“In quegli anni la protesta che accompagnava le nuove frontiere artistiche vide l’inizio del processo disintegrante anche nelle furiose pennellate di Jackson Pollock che, insieme a Parker e Kerouac, “rappresentava l’esplosione di una nuova controcultura postbellica apparentemente fondata sul sudore, immediatezza e istinto, più che su gavetta, abilità e sfiancante esercizio”. (61)

Come per gli altri due, anche Pollock si poneva in una condizione di libertà e svincolamento da qualsiasi oppressione esterna che gli permetteva di entrare nel flusso e affondare realmente nella gestualità pittorica con un impeto di frenetica estasi a cui fanno eco le lunghe, torrenziali e complesse frasi di Kerouac e l’esplosione delle note del sassofono di Parker.

Pollock rappresentò l’esito finale della pittura moderna cominciata con l’automatismo del surrealismo portando alle estreme conseguenze i presupposti in cui la libertà espressiva e il sentimento del presente fanno parte del culto di questa estrema soggettività e del suo rapporto con la vita. Secondo Carmine Benincasa, Pollock rappresentava “l’esperienza inquieta e turbolenta della cultura post-cubista” che in America “recuperava le antiche radici europee e la visionaria apertura apocalittica” attraverso una nuova e scatenata energia che giunse al proprio linguaggio attraverso “le radici dell’interpretazione del mondo, cioè il mito e i simboli…” (C.Benincasa,1994)

Dopo aver affrontato le tematiche pittoriche di Picasso, che all’inizio del secolo aveva distrutto le strutture formali della prospettiva e della descrizione, Jackson Pollock adottò presto le tecniche provenienti dal surrealismo come la scrittura automatica, ed accolse con piacere il fatto che a causa della guerra in Europa alcuni anziani maestri del vecchio continente si trovassero in quel momento in America, poiché portavano con loro una comprensione dei problemi della pittura moderna; inoltre era particolarmente colpito dal loro concetto secondo il quale la fonte dell’espressione artistica è l’inconscio. In un’intervista dichiarò: “Credo che ognuno di noi sia influenzato da Freud. Io sono junghiano da un pezzo…”

Nel suo periodo di analisi junghiana Pollock rivisitò l’arcaico e le culture primitive, sviluppando metafore simboliche sulla tragica condizione dell’uomo moderno generando un nuovo spirito di rivolta e di negazione della realtà. Insieme con gli altri compagni d’arte si consideravano moderni creatori di miti, sopravvissuti all’olocausto e senza nessun programma preciso. I loro stili informali erano svariati e si rifacevano tutti a una purezza che potesse tenere lontano il ricordo della guerra e il senso di fallimento dovuto alla crisi economica, alla nascita dei regimi totalitari, alle ingiustizie sociali, ai conflitti razziali e all’orrore dell’atomica. Secondo Barnett Newman, la realtà evocata da questi artisti e la natura delle loro immagini trae vita dal mondo emozionale e fantastico, e pertanto non assomigliano a nulla di conosciuto, anzi sono e restano intangibili, prive di realtà fisica, cioè fenomeni psichici. Newman considerava Pollock un rivoluzionario in un momento storico senza speranze; così “il risveglio ebbe il fervore di una rivelazione”. Si ripartiva da zero come se la pittura non fosse mai esistita prima.

Con questa generazione di artisti americani la pittura divenne uno spazio in cui si era liberi di fare qualunque cosa, di esprimersi al di fuori di schemi prestabiliti, non c’era niente da perdere, non c’erano più orizzonti né sentieri da percorrere, la dimensione che si veniva caratterizzando in questo modo non era più spaziale come in passato, ma psicologica. Secondo Allan Kaprow, l’espressione pittorica di Pollock procurava un piacere molto forte perchè permetteva di partecipare al delirio e alla riduzione delle facoltà razionali dell’Io che finalmente si perde. In una società dove tutto è progettato, un’azione non progettata era rimasta l’ultima possibilità in cui ricercare un nutrimento non formalizzato per l’anima.

Il gesto come “immediatezza” di Pollock, la musica improvvisata di Parker e la “catena ininterrotta di pensiero” di Kerouac, formavano un assioma culturale che consentiva di eliminare le associazioni limitate con le quali la società si identifica mantenendo occultato l’aspetto più genuino dell’esistenza.

In un’intervista del 1950 Pollock sottolineava: “Mi pare che il pittore moderno non abbia la possibilità di esprimere il nostro tempo, cioè il tempo degli aereoplani, della radio e della bomba, nelle antiche forme che erano del Rinascimento o di altre culture ormai tramontate. Ogni epoca deve poter trovare le proprie tecniche”… “i pittori oggi non sono più obbligati a cercare un soggetto al di fuori di se stessi…”

Furono soprattutto le teorie di Freud a stimolare inizialmente i dadaisti e poi i surrealisti a portarsi fuori dalla realtà conosciuta del mondo diurno in vista di mete anche utopistiche a cui fare ricorso per non soccombere al soffocante mondo del reale. Fu infatti la dimensione onirica surreale e l’automatismo a prevalere nel tentativo di traghettarsi verso il trascendente.

Come un libero vagabondare, il tempo senza tempo è la condizione preliminare di ogni opera d’arte moderna, soprattutto per gli artisti visionari come il francese Andrè Masson, che ancor prima di frequentare Breton aveva già anticipato i dettami fondamentali del manifesto surrealista con i suoi esperimenti di automatismo libero da qualsiasi intenzione sistematizzata. L’assenza di un progetto estetico-pittorico portò ad una rottura definitiva dell’ordine linguistico. Lo scopo era quello di andare oltre la logica dei propri sensi, rivelando così non un’apparenza ma l’essenza stessa della natura. Dice Masson: “Sapevo cosa si doveva fare: il vuoto dentro di me, essere completamente disponibile, lontano da ogni premeditazione. Non riflettevo su quello che facevo”.

Fu Jung a sostenere che la sospensione dell’intelletto razionale consente di risparmiare quell’energia che ricaricata produce un aumento di disponibilità creativa. Tale sospensione dell’intelletto razionale è parte integrante della disciplina zen praticata da monaci e artisti al fine di predisporsi alla compiutezza di un’azione che tendendo alla trascendenza rimane comunque senza uno scopo utilitaristico, senza un’intenzionalità definita. Nella pittura calligrafica dello Zen, l’artista esprime l’illuminazione di un istante e non ha tempo pertanto di elaborare la pennellata. Così Masson predilige la virtù del cambiamento, secondo lui “agire non è conservare, agire è avere la forza di contraddirsi, di muoversi, di essere il grande viaggiatore della parabola taoista, il grande viaggiatore che non sa dove va”.

Masson anticipò i surrealisti e la gestualità di Pollock proprio attraverso questo modo di porsi che è tipico dello Zen, cioè dell’azione subitanea in stato contemplativo.

“La pittura Zen sembrerebbe essere stata creata, al pari della religione stessa, da pensatori antiaccademici della tarda dinastia T’ang”. I monaci dissidenti rifiutavano gli stili accademici e amavano “farsi beffe dei loro colleghi di tendenze conservatrici”. Tale scuola di pittura è stata paragonata all’occidentale e moderna scuola dell’espressionismo astratto e ricevette il nome di “casta degli sfrenati”. Il pittore zen si può dedicare a calligrafie, ritratti o paesaggi; egli era un uomo che “per vent’anni si dedica allo studio della tecnica, e quindi si getta in balia dell’ispirazione”. (62)

La poetica del gesto, deciso e senza ripensamenti, divenne la chiave per elaborare ed eventualmente cancellare ogni precedente nozione della realtà. Si trovò nell’influenza più o meno consapevole dello Zen la matrice antica di questa necessità di proiettare se stessi nell’opera d’arte dissolvendo una tensione, muovendo da “un’azione non progettata.

L’arte informale pertanto diventò arte di incomunicabilità e ciò che la giustificava era l’operatività dell’artista di fare arte. Grazie allo Zen quest’arte si arricchì di contenuti che andavano al di là del linguaggio, liberandosi da vincoli estetici, rendendosi sofisticata e svuotandosi del complicato e del minuzioso. A quel punto tutti gli artisti che si avvicendarono sulla scena delle opposte rive dell’oceano, parlarono di “purificazione”, di “atto assoluto” o “autosufficiente”, di “non pittorico”, di “non sensuale”, “spoglio”, “senza tempo”, “senza stile” ecc.

L’indignato Alan Watts comunque sentenzierà: “Alcuni artisti possono ribattere che non vogliono che le loro opere siano diverse dall’universo nel suo insieme, ma se è veramente così non dovrebbero allora presentarle in gallerie d’arte o alle mostre. Soprattutto non dovrebbero né firmarle né venderle: è immorale quanto vendere la luna o firmare con il proprio nome una montagna (…) Oggi ci sono artisti occidentali che usano apertamente lo Zen per giustificare l’uso indiscriminato di tutto quanto passa loro per la testa: tele in bianco, musica completamente silenziosa, brandelli di carta stracciati lasciati cadere su una tavola e incollati dove cadono…” (63)

Negli anni Sessanta Jean Dubuffett arrivò a considerare arte anche quella degli schizofrenici in quanto forme espressive emancipate dalla cultura.

Poichè in apparenza lo Zen, come la natura, non ha regole precise da presentarci, ognuno si sentiva in diritto di “scherzare” con le forme dell’arte senza paura di sbagliare o commettere errori intellettuali e filosofici, ma in questo modo lo Zen era usato come una sorta di ostentazione da bohemien.

Watts ci allerta sul fatto che gli “accidenti controllati” usati dai geniali artisti cinesi e giapponesi, non risultano belli in modo convenzionale, ma è solo grazie alla magica casualità che ritroviamo in natura che essi rappresentano l’essenza universale di tutte le cose. Ma per giungere a questi risultati, è stato detto, il pittore zen è “un uomo che per vent’anni si dedica allo studio della tecnica, e quindi si getta in balìa dell’ispirazione” penetrando oltre le percezioni della mente razionale e dei sensi, rivelando così, non già l’apparenza, ma la vera essenza della natura.

Fonte : “C’era una volta un ribelle” (R.Santilli, ed. Anicia 2019)

C’era una volta un ribelle

Influenzati dalle ricerche di Freud e Jung, e dalla cerchia di quegli scrittori che avevano spostato la loro attenzione dalla società all’indagine sulla natura della coscienza, gli artisti del secondo dopoguerra americano ed europeo si resero conto ben presto che per affrontare le loro incertezze e frustrazioni, i loro riferimenti filosofici e artistici dovevano addensarsi su quegli stessi presupposti psichici che più tardi li avrebbero introdotti alla conoscenza del pensiero orientale.
La loro utopica ribellione aprì la strada a nuove possibilità, nuove idee, nuove forme di vita e nuovi modelli di pensiero, i valori dei quali, passando attraverso la controcultura si riscontrano nell’attuale pensiero diffuso.
Viene ricostruita così la sintesi di quella forma di ribellione pacifica pilotata dalla poetica di Ginsberg e Kerouac, passando dal Jazz e
dall’avanguardia artistica del Novecento fino a coinvolgere il movimento giovanile degli anni Sessanta e Settanta, il Rock in tutte le sue
forme e includendovi la ricerca spirituale che passò soprattutto dallo Zen. Questi uomini, questi artisti, stanchi del contrasto delle opinioni,
facevano pertanto riferimento a ogni forma di cultura alternativa pur di investigare, stimolare la coscienza, gettare uno sguardo in profondità e fare personalmente l’esperienza di come stiano realmente le cose per liberarsi dai vincoli del mondo conosciuto, dal dolore e dalla frustrazione e ritrovare il significato della vita.

“Quando conobbi Allen Ginsberg nel 1979 al Festival dei Poeti a Castelporziano con lui c’erano Gregory Corso, Peter Orlowsky, Lawrence Ferlinghetti e il vecchio William Borroughs. Mancava solo Jack Kerouac che era morto dieci anni prima.

In quell’occasione Ginsberg mi scrisse una poesia su un foglio di carta rimediato; la poesia cominciava con “Blue moon…” e non ricordo di più; ricordo invece che mi fu sottratta quasi per errore dalla ragazza che mi accompagnava e che non sapeva neanche chi fosse Allen Ginsberg”.

“Qualcuno ha detto che il movimento giovanile degli anni Sessanta ha cambiato la cultura umana. Le premesse di questa nuova generazione erano state poste con la cultura underground a partire dalla chiara concezione che il sistema di vita occidentale americano aveva fallito e che per risensibilizzare la percezione e restituire alla coscienza una nuova visione liberata dagli stereotipi c’era bisogno di un antidoto”.

(“C’era una volta un ribelle”, Raffaele Santilli, ed. Anicia, Roma, 2019, pag. 70)

“La scena underground e della controcultura stava tramontando, ma i temi della frustrazione e del dolore, così denunciati dai giovani degli anni Sessanta e Settanta sono ancora presenti oggi, ma quella stagione ha portato con sé i segni di una nuova consapevolezza che oggi apparentemente sembrerebbe andata perduta. – In quegli stessi anni si fece sempre più chiaro che quei temi della frustrazione e del dolore, tanto sentiti dai giovani e tanto temuti dagli anziani, sono stati da sempre i temi di base della dottrina religiosa buddhista”.

(Ibid. pag. 110)

“Il ribelle di oggi non può che essere colui che realizza in sé stesso la saggezza. La vera eredità della cultura della ribellione è, oggi più che mai, una rivoluzione totale che include in maniera creativa e costruttiva la saggezza del proprio fallimento come un pieno successo, nell’aprirsi a nuovi mondi di senso”. (pag. 150)


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Cosa è Jungmandala


Carl Gustav Jung è stato il fondatore della scuola di psicologia del profondo in cui la creatività riveste un ruolo centrale per lo sviluppo psichico della personalità, la totalità inconscia della quale aspira alla completa realizzazione attraverso la totale presa di coscienza. La presa di coscienza, diceva, è cultura nel senso più ampio della parola.

“Le tesi junghiane continuano a influenzare chiunque si ponga come obiettivo la qualità della vita, piuttosto che accontentarsi semplicemente di esistere”. (D. Davidson)

Mandala è il cerchio, la struttura perfetta che contiene il cosmo psichico dell’uomo, tutti gli elementi che formano una totalità psichica compiuta.

“Mi fu sempre più chiaro – racconta Jung – che il mandala è il centro. E’ l’espressione di tutte le vie. E’ la via al centro, alla individuazione“, la forma ideale di rappresentazione del Sè, “la natura microcosmica dell’anima”. (R.S.R.)

Per i monaci tibetani il mandala è fonte di ispirazione, ed è anche la rappresentazione del cosmo, oggetto di concentrazione e meditazione, centro e periferia delle trasformazioni psichiche. Costruito con pitture o sabbia colorata, viene fatto oggetto di culto proprio perché dopo la lunga preparazione viene poi lasciato al vento e agli agenti atmosferici che ne distruggono l’aspetto esteriore illusorio testimoniandone l’impermanenza, la vuota esistenza.

Jungmandala è un portale culturale per accedere al mito dell’anima nelle sue forme immediatamente più riconoscibili intimamente connesse tra loro, un laboratorio di trasformazioni in direzione di un infinito; un Centro Studi, ricreazione e ricerche nel campo dell’esplorazione della coscienza.


La costruzione del Mandala

Nella tradizione tibetana, il mandala è a un tempo stesso una sintesi dello spazio, un’immagine del mondo e la dimora di potenze divine, quindi la manifestazione in forma di diagramma, di perfette qualità come la compassione, la saggezza e l’energia spirituale; questa rappresentazione è capace di condurre chi la contempla, se si sono ricevuti i necessari insegnamenti, a una progressiva purificazione mentale e al Risveglio. La costruzione del mandala inizia tracciando forme geometriche ben precise che vengono poi ricoperte in ogni piccola parte con sabbie finissime di diversi colori; è essenzialmente sul piano estetico, una struttura quadra orientata provvista di quattro porte contenente cerchi e fiori di loto, popolato di immagini e simboli divini. (…) Prima di iniziare la costruzione i Lama procedono ad un rito di consacrazione del luogo operando la purificazione delle energie negative presenti; alla fine della costruzione, con un altro rituale, il mandala viene disfatto, a simboleggiare l’impermanenza dei fenomeni composti e la negazione dell’auto-esistenza. Le sabbie vengono poi mescolate sul piano dove erano state ordinatamente posate granello per granello, raccolte e messe in un recipiente per essere versate in un corso d’acqua oppure donate.

I monaci del monastero di Gaden Jangtse (Mundgod – India) costruiscono il mandala di Avalokiteshvara “Il Buddha della Compassione” – Roma – Galleria A.Sordi; 8-18 giugno 2007 – Cerimonia di chiusura con la distribuzione delle sabbie.

 

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