Lo Zen è stato quella particolare forma di buddhismo che dall’India si trasmise in Cina dove venne elaborato e sviluppato, e che attraversando la Corea si diffuse poi in Giappone.
Oggi lo Zen è quella particolare forma del buddhismo che dal Giappone del XIII secolo ha raggiunto il continente americano e gran parte dell’Europa. Questa particolare interpretazione del buddhismo che determinò il corso della storia politica e sociale del Giappone, subì una lunga serie di evoluzioni e involuzioni nei sette secoli trascorsi durante l’epoca della società feudale, in una cornice di guerre sanguinarie, scontri armati e conquiste di territori. In questo periodo tormentato lo Zen rappresentò tutto ciò che di più armonioso potesse esistere tenendo il più lontano possibile la paura della morte.
Verso la fine del XVI secolo, dopo il tentativo di cristianizzazione da parte dei gesuiti, i pochi occidentali rimasti sull’arcipelago vennero espulsi tranne i protestanti olandesi che senza secondi fini, si limitavano ai soli scambi commerciali. L’esodo forzoso dei cristiani era dovuto soprattutto agli interessi colonialistici dell’Europa, ma anche al fatto che i giapponesi non potevano accettare le superstizioni di una religione i cui insegnamenti si concentrano su una visione della realtà che accresce i pensieri, i dolori e le emozioni, spingendo i fedeli alla necessità di un “Creatore dell’Universo” per controllare l’angoscia. Dopo tanto spargimento di sangue dunque, iniziò una campagna di unificazione nazionale che segnò la fine del medioevo giapponese, vietando l’uso delle armi e tutte le forme di ribellione che avrebbero potuto destabilizzare il Paese.
Con lo Shōgunato Tokugawa iniziò così un lungo periodo di pace interna che creò le condizioni per una stabilità politica, ma anche un pesante isolamento dal resto del mondo che sarà forzosamente interrotto nel 1867 dalla presenza in mare della flotta navale americana del Commodoro Perry che ottenne con la forza l’apertura di alcuni porti commerciali. Nonostante l’agitazione interna di chi avrebbe voluto lo scontro armato, era chiaro che l’esercito giapponese non sarebbe stato in grado di sostenere un simile conflitto.
La geografia mondiale stava per cambiare, la grande politica internazionale mise definitivamente in discussione ciò che rimaneva di quel tardo medioevo giapponese. Le pressioni esterne provocarono così la crisi definitiva del quindicesimo Shōgunato restaurando l’antico potere imperiale dei Meiji che nel 1868 stabilirà il nuovo assetto politico e amministrativo con capitale a Edo, che cambierà nome in Tokyo. Si costituirà un Parlamento Nazionale che abolirà definitivamente i diritti feudali. Gli ultimi samurai, i figli e i nipoti di quelli che avevano tentato una resistenza, entrati nel nuovo mondo burocratizzato, si sparpagliarono in varie classi sociali. Si dice che alcuni di questi, mantenendo le tattiche e le strategie del Budō, l’antica arte della guerra, hanno creato l’impero economico del Giappone moderno.
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In un’intervista del 1955 per la BBC, Jung, ormai ottantenne, spiegava quella che secondo lui era la differenza tra il pensiero occidentale e quello orientale: spontaneamente riconobbe che il pensiero dell’Oriente era simile alla sua psicologia in quanto profondamente influenzato dai fatti basilari della psiche; così concludeva: “Secondo alcuni, alla nascita, la mente è vuota, una tabula rasa, io invece dico che nella mente c’è già tutto, già da quando nasciamo, solo che ancora non è conscio. E’ presente come potenzialità. Ebbene l’Oriente fonda il suo pensiero su questa potenzialità (…) Dobbiamo fare i conti con il fatto che questo mondo empirico, in un certo senso, è solo apparenza, che è, come dire, connesso con un altro ordine di cose al di sotto e al di là di esso, dove ‘qui’ e ‘là’, non hanno senso; dove non si da estensione nello spazio, il che significa che lo spazio non esiste, e non si da estensione nel tempo cioè il tempo non esiste (…) Una parte della nostra vita psichica si svolge al di fuori dello spazio e del tempo, cioè non è soggetta al mutamento. Queste idee per noi sono deduzioni logiche, ma in India sono patrimonio comune. Leggendo le storie del Buddha nel canone Pali, se ne trovano molti esempi”.
Almeno tutta la prima parte della sua opera, Jung la dedicò alla dimostrazione, su basi empiriche, dell’errata concezione e visione della realtà, da parte dell’uomo moderno: un lavoro di smantellamento di illusioni personali, cioè le ‘proiezioni’, a favore invece, di un’ampia visione. Il contatto vivo con le forze inconsce, infatti ci ridona la gioia di tornare a noi, di essere una persona intera e completa.
Analogamente il buddhismo, religione ugualmente basata sulla coscienza empirica dell’uomo e del funzionamento della mente, si preoccupa di allontanare, anzi di estinguere la visione illusoria (maya) del mondo, la falsa realtà condizionata dalle nostre percezioni sfalsate, soprattutto del sentimento di un ‘me stesso’ separato dalla realtà che a sua volta è un’illusione così come normalmente è interpretata.
Anche qui, giungere alla ‘chiara visione’, significa un’interezza che conferisce all’uomo un valore stabile, cioè un senso. Entrambe sono vie di liberazione attraverso il confronto tra l’Io e l’inconscio, cioè tra ciò che conosciamo e ciò che non conosciamo della psiche; come ci dice Thomas Hoover quando parla dello zen come di una cultura che “è stata elaborata nel corso dei secoli per metterci in contatto con quella parte di noi che in Occidente conosciamo appena”. Più particolarmente si potrebbe dire che la base comune delle due ‘vie’, è lo studio e la conoscenza del proprio Sé, cioè del risultato di questo contatto e confronto con ‘l’altra parte’. Infatti “il contrasto delle posizioni degli opposti comporta una tensione carica di energia che produce qualcosa di vivo, un terzo elemento che non è affatto, secondo l’assioma ‘tertium non datur’, un aborto logico, ma è invece una progressione che nasce dalla sospensione dell’antitesi”.
L’antitesi è la coscienza che per farla da padrona si oppone alla tesi, che è data, cioè l’inconscio che è eterno e infinito; nel riconoscimento attivo dell’inconscio l’Io si fa partecipe, e come antitesi produce un arresto della propria volontà; “l’atto del volere infatti diviene impossibile, poiché ogni motivo si trova dinanzi ad un motivo opposto che ha uguale forza ed intensità”. Come nella meditazione, l’inattività della coscienza risveglia l’attività dell’inconscio provocando una sintesi, che nel senso più profondo può essere denominata Sé. Il buddhismo parte da questa realtà e la psicologia di Jung la riconosce come naturale compimento dell’opera di trasformazione spirituale.
Lo studio e la pratica della via del Buddha è lo studio e la pratica del proprio Sé. Come ebbe a dire lo stesso Jung: “Compresi la vita del Buddha come la realtà del Sé che tende a una vita personale e lo esige totalmente. Per Buddha, il Sé sta al di sopra di tutti gli dei, rappresenta l’essenza dell’esistenza umana e del mondo in genere. Il buddhismo subì la stessa trasformazione del cristianesimo. Buddha divenne, per così dire, l’immagine del compimento del Sé, divenne per gli uomini un modello da imitare”. Uchiyama ci illustra come nei Sutra e nei commentari troviamo molte parole, apparentemente diverse per designare sempre un’unica idea, il Sé universale: esse possono essere espressioni come ‘natura di Buddha’, ‘un Solo Cuore’, ‘Advaita’ (non dualità), ‘Essere così’, ‘Nirvana’, ‘Cammino di Mezzo’.
E Jung si preoccupa molto di tradurre e comunicare le idee di fondo che stanno dietro alle parole: “Nel mio lavoro, io non ho fatto altro che dare nuovi nomi, a quelle realtà. Prendiamo, per esempio, la parola ‘inconscio’: ho appena finito di leggere un libro di un buddhista zen cinese, e mi è sembrato che tutti e due parlassimo della stessa cosa, e che l’unica differenza tra noi fosse che ciascuno dava un nome diverso alla medesima realtà. Perciò l’uso della parola ‘inconscio’ non ha importanza, ciò che conta è l’idea che sta dietro a quella parola”. Ciò che spinse Jung, fin da giovane, a penetrare tanto in profondità, fu l’esigenza di capire, per poter aiutare se stesso e gli altri, esattamente come lo fu per Buddha Shakyamuni.
I suoi obiettivi divennero l’interezza della personalità dell’uomo e la realizzazione della sua natura profonda, superando quindi quelli relativi alla sola cura dei sintomi, cioè oltrepassando gli obiettivi solo terapeutici, poiché con la psicoterapia, diceva, veniva sollevato “un problema che va molto al di là dell’ambito medico specifico, e al quale conoscenze soltanto strettamente mediche non possono rendere giustizia”. Oltrepassando la soglia degli eventi insoluti dell’individuo, cioè del suo inconscio personale, quel ‘magazzino’ oscuro di desideri rimossi, il riduttivo inconscio freudiano, Jung si addentra nella vasta dimensione di quello che i buddhisti chiamano ‘Mente Universale’ o ‘Immutabile Saggezza’ cioè l’inconscio comune a tutta l’umanità, l’inconscio collettivo.
La scoperta dell’inconscio collettivo va di pari passo con la presa di coscienza della sua dinamica, con le ‘strutture’ che determinano e modificano i nostri comportamenti: cioè gli archetipi. “L’archetipo è la ‘forma’ introspettivamente riconoscibile di un ordinamento psichico ‘a priori’; per esempio il comportamento di un qualunque uccello o insetto segue uno schema, e lo stesso vale per noi: “L’uomo ha un certo schema che lo rende specificatamente ‘uomo’ e nessuno ne nasce privo. Siamo profondamente inconsci di questo fatto solo perché tutti noi viviamo attraverso i nostri sensi e proiettati verso l’esterno; se fossimo capaci di guardare dentro di noi lo scopriremmo”.
In situazioni ottimali gli archetipi forniscono i contenuti psichici basilari e stabiliscono la direzione; sono fossili di esperienze millenarie sedimentate, sono ‘motivi’ il cui contenuto è il sapere del mondo, e costituiscono perciò “L’immutabile”. Nello stato di equilibrio l’Io e la coscienza guidano i processi archetipici, nel loro insieme, “per aiutare e realizzare gli scopi che la psiche contiene inconsciamente”. Come dire che ogni processo che viene innescato nella psiche conosce intrinsecamente la sua destinazione, essendo stato lungamente in incubazione nell’inconscio. “L’archetipo è in Sé un elemento vuoto, formale, nient’altro che una ‘facultas praeformandi’, una possibilità data a priori (…) Le ‘forme’ sotto questo aspetto corrispondono agli istinti.
L’uomo comune è incapace di vedere oltre la Forma. E’ incapace di vedere l’Incarnazione”. Cioè, l’uomo comune non sa vedere come le strutture archetipiche dell’inconscio collettivo creino forme intese come ‘senso dell’istinto’; l’archetipo stesso diventa l’Incarnazione. Buddha è l’Incarnazione dell’archetipo del Sé. Tutte le forme sono incarnazioni del Vuoto, e il vuoto è la ‘struttura’ delle incarnazioni, proprio sulla base dei principi archetipici. Così il samurai Miamoto Musashi dice che “praticando la forma si percepisce il Vuoto” (Ku); e l’Hannya Shingyo (Sutra del Cuore), il testo fondamentale del Soto Zen insiste, a sua volta, sullo stesso punto affermando che “i fenomeni non sono diversi dal vuoto e il vuoto non è diverso dai fenomeni”.
Il Vuoto è proprio la ‘possibilità data a priori’ degli archetipi, non ancora manifestata, è in potenza, ma, appunto, vuoti, senza una realtà propria e indipendente. Vediamo perciò, come anche l’Io sia un sistema o un ‘complesso’, che non sussistendo di per se, non avendo una sostanza propria permanente, ma anzi dipendente da tutto, è considerato un evento, un fenomeno anch’esso vuoto, opposto alla forma, equivalente dunque a un ‘non-Io’; paradossalmente è anche l’opposto di se stesso cioè Io e non-Io si equivalgono come qualunque altra categoria di contrari. Perciò quando nel buddhismo zen si pongono domande sulla natura del Buddha o su altre importanti questioni, i maestri spesso elaborano esercizi atti a stravolgere la mente razionale limitata, rispondendo col contrario concettuale o con argomenti che non hanno niente a che vedere con la domanda, perché la domanda presuppone una dualità che non esiste e richiede una risposta logica che va contro la reale struttura della mente ‘prima della nascita’, cioè in opposizione all’inconscio, perpetuando l’Io, anziché accantonarlo. Per questo nello zen si parla di abbandonare la nostra erudizione, di abbandonare la nostra mente cosciente, quando invece è proprio questa mente che cerca la mente; dice Huang-Po: “Usare la mente per cercare la mente senza vedere che la mente e l’oggetto della sua ricerca sono la stessa cosa. E’ un inganno credere di cercarla altrove”. E per Jung la mente “non ha possibilità di interloquire in una dialettica psicologica, in quanto è lo stesso oggetto investigato”. O ancora, con Lin-Chi: se un uomo ricerca Buddha, quest’uomo perde Buddha”. L’Io vive nel tempo e nella causalità, mentre lo zen, come dice Watts, “inizia al punto in cui non c’è più nulla da cercare, nulla da guadagnare”, essendo tutti i fenomeni vuoti, effimeri, non avendo la vita uno scopo preciso dui cui l’Io possa impossessarsi.
L’intuizione dunque è la facoltà creatrice che funziona come sintesi dei due sistemi conscio-inconscio che ormai non agiscono più come sistemi scissi e contrapposti. Impossibile quindi avvicinarsi allo zen con la mente, perché lo zen è non mente, lo zen parte dalla realtà del Sé, lo zen è natura originaria, non-nata, non creata, indivisa. Questo processo di trasformazione inverte la tendenza solamente evolutiva, tipica della prima età della vita, “non però nel senso che produce una disintegrazione dell’Io e della coscienza, al contrario esso porta a un’espansione della coscienza attraverso la riflessione dell’Io su se stesso, riportandolo alla dimensione di strumento della totalità”, strumento del Sé. Anche le pratiche religiose tentano di portare la coscienza al punto di non essere più influenzata dalle cose esterne, lasciandola disponibile, “vuota, aperta a un’altra influenza. Quest’altra influenza non sarà più sentita come un’attività propria, ma come opera di un non-io che ha la coscienza come oggetto (…). Questo capovolgimento rende la nostra esistenza inconscia reale e il nostro mondo cosciente una sorta di illusione, o una realtà apparente simile a un sogno che sembra realtà finché vi siamo dentro. E’ chiaro che questo stato di cose rassomiglia molto da vicino alla concezione indiana del Maya”. Ecco perché Dogen dice che studiare il buddhismo è studiare se stessi, cioè la propria autonatura, e studiare se stessi è dimenticare se stessi. Un antico poema recita così:
E’ la mente stessa che conduce fuori strada la mente; non lasciare che la mente ti sfugga dalla mente.
Per dirla con Huang-Po “Poiché la nostra mente è inceppata da essi (i concetti dualistici) si deve girare la Ruota della Legge”. Così nel Rinzai Roku: “Le male passioni insorgono a causa della mente; se non avete mente, quale male passioni potrebbero legarvi?” L’energia liberata, non legata, non ostacolata, che Jung chiama ‘libido’, quando riposa in se stessa, quando torna alla sua dimora, si riconosce come autonatura ‘increata’ e sposta il centro di gravità da Io a non-Io.
Nelle profondità della meditazione, l’introversione della libido sacrificata al mondo si inabissa e il soggetto è come interrato; l’energia di chi è immerso in se stesso è quasi spenta; Deschimaru paragona lo zazen all’entrata nella nostra bara, la volontà fa spazio al Mushotoku: è lo stato di ‘mushin’, “letteralmente significa ‘nessuna mente’ cioè nessun Io. Si intende con ciò che la mente che non pensa è in uno stato di equilibrio, se non perturbata dalla pressione dei pensieri. Nello zen ci addestriamo a ristabilire l’equilibrio in ogni momento. Quando le pressioni dei pensieri a cui è soggetto l’Io, sono dissolte, l’Io svanisce e c’è il vero vuoto”. Il non-pensiero è pensiero ‘al di sopra del linguaggio’, un pensiero vuoto che fluttua secondo il proprio peso. Anche per Dogen lo stato di equilibrio è il ritorno a se stessi mediante la pratica dello zazen, la realtà della vita al di là di tutte le definizioni, una psiche indivisa, un’unione degli opposti che è pensabile solo come loro annullamento. Quando lo spirito finito comprende di avere le proprie radici nell’infinito, il Sé si risveglia, diviene il ‘contenuto vissuto del risveglio’, o come dice Jung “si riconosce che Buddha non è altro che la psiche del meditante stesso”.
Questa relatività di spazio e tempo, sembra aumentare a misura che ci allontaniamo dalla coscienza, fino a giungere ad una assoluta atemporalità e aspazialità”. Anche vicende interne comuni come sogni, presentimenti ecc. trovano corrispondenza nella realtà esterna. “Queste vicende di simultaneità sembrano essere legate a processi archetipici nell’inconscio come se spazio e tempo fossero in rapporto con condizioni psichiche, o che in se e per se non esistano affatto, e siano ‘posti’ solo dalla coscienza”, cioè dall’attività discriminate della coscienza che forma coordinate indispensabili per la descrizione dei corpi in movimento.
Così come nella meditazione profonda il ‘movimento’ si arresta quando la psiche non osserva più i corpi o i fenomeni, ma si autosserva, si autoriflette e conosce se stessa.
“Se mi so unico nella mia combinazione individuale – diceva Jung – vale a dire limitato, ho la possibilità di prendere coscienza dell’illimitato (…) Avere figli, una carriera; tutto ciò è Maya in confronto a quell’unica cosa: un’esistenza che abbia senso”. Il senso per Jung viene dalla partecipazione soggettiva agli eventi archetipici; sentiva che l’uomo ha un disperato bisogno di una vita simbolica che potesse esprimere i bisogni dell’anima, bisogni che la nostra anima manifesta ogni giorno.
Si interessava di quegli aspetti dell’esistenza, che come per la saggezza buddhista si possono osservare direttamente; fu uno dei primi in Occidente a riconoscere che per la filosofia indiana, il buddhismo, fino allo zen passava lo stesso filo conduttore: il confronto con l’inconscio. L’Oriente, infatti, fu una delle costanti più significative dl suo pensiero; con altri termini espresse le stesse cose del Buddha: che la redenzione è emancipazione dal Samsara; che la sofferenza è la falsa attività della mente, e il Nirvana la libertà completa; come Buddha, Jung si occupò della sofferenza intesa come patologia cioè ‘logos del pathos’. Sosteneva che “una accresciuta conoscenza della spiritualità orientale può divenire per noi l’espressione simbolica del fatto che cominciamo a entrare in relazione con quanto ci è interiormente estraneo: in altri termini costituisce l’annuncio di una ricerca personale tesa a meglio cogliere ciò che si muove nel nostro inconscio”. Dopo di lui tutti gli sforzi fatti per raggiungere un’obiettività da parte degli approcci psicologici trans-personali si basano sulle sue premesse. Per questo si può dire con James Hillman “al di sotto di tutte le sollecitazioni a crescere e sviluppare, creare e produrre, c’è il bisogno di salvare la propria anima in un modo o nell’altro (…) per mezzo dello zen, di Freud o di Jung. Tramite l’esperienza diretta resa possibile in analisi facciamo ciò che disse il Buddha ‘Lavora con diligenza alla tua salvezza’”.
Si ringraziano :
Ed. Boringhieri – Ed. Sé – Ed. Ubaldini – Ed. Adelphi – Ed. Rizzoli – Ass. Italiana Soto zen – Ass. zen internazionale
Dice un maestro moderno: “Coloro che oggi aspirano a trovare un modo di vita autentico si scontreranno con tutti i problemi della società moderna. Il progresso umano non coincide assolutamente col progresso della scienza, e non segue neanche il percorso dello sviluppo della società materiale. Vi sarà progresso umano se ogni singolo essere diventerà adulto”. (K. Uchiyama: Aprire la mano al pensiero, Astrolabio Ubaldini, 2006)
Quando nel prendere i voti l’aspirante monaco dichiara di “prendere rifugio nel Dharma” e “nel Buddha”, si sta alludendo a quel rifugio dello spirito che è già in ognuno di noi, la dimensione invisibile connessa con tutte le cose che è il mondo visto dall’interno, paragonato alla corrente di un fiume che una volta entrato nel mare perde la sua identità. È questo che va chiarito per evitare quella norma collettiva generale del comportamento sociale che impedisce la presa di coscienza della propria vera identità.
Quando i buoni propositi si sclerotizzano in religioni, si convertiranno poi nella realtà convenzionale di un popolo determinandone la psicologia, e questo è accaduto anche con lo Zen giapponese; per tale motivo il maestro Sawaki opportunamente raccomandava di evitare di diventare “monaci professionisti” e organizzarsi invece nella società vivendola da dentro, influenzando positivamente il tessuto sociale. Molti monaci, comprensibilmente, trovano più semplice cercare conforto nella rigida serenità di una dottrina tradizionale più facile da seguire piuttosto che una via individuale incerta e sconosciuta che esige risposte individuali…” (R. Santilli: Zen, la via dell’inconscio (la psicologia della non-mente di prossima pubblicazione)
“Sebbene lo studente zen non lo faccia intenzionalmente, egli spesso si ritrova ad esplorare una regione della mente sulla quale, con molta probabilità, nessuno psicologo ha mai gettato più di un fuggevole sguardo. Ciò non vuol dire che noi disprezziamo la psicologia. Al contrario, abbiamo il più grande rispetto per questa come per le altre scienze, e il nostro più ardente desiderio è che i loro metodi e i loro concetti vengano messi in rapporto con lo studio dello Zen”. (K.Sekida, La pratica dello Zen, Ubaldini Astrolabio 1976)
Con lo Zen non dovremmo avere più bisogno di parlare di risveglio, perchè questo risveglio non è altro che la capacità di vedere la vita attraverso l’elemento infinito in noi che comprende il mondo intero,e non vi è nulla che non ne faccia parte.
Il semplice fatto di essere nati non esaurisce il vero significato della vita. Nascere nel mondo è detto “entrare in scena” in un mondo già esistente, formato da comunità di uomini che comunicano tra loro e che nel tempo hanno stabilito un codice di comunicazione e comportamento. Sostanzialmente la nascita e la crescita iniziano e finiscono in questo mondo di comunicazioni e comportamenti stabiliti e socialmente accettati come consuetudini per comodità ma che rimangono nell’ambito delle convenzioni. È questo il modo di esistere degli esseri umani che, come attori inconsci, sono comparsi nella scena della vita. Huxley parlava di “nozioni di seconda mano” per dire quanto l’uomo resti condizionato non dalla vera cultura ma dai simboli di una cultura che mantiene gli individui entro precisi confini stabiliti che producono slogan e idee già fatte sulla natura delle cose. In questo modo il pregiudizio si sovrappone automaticamente all’’esperienza immediata compromettendo la possibilità di sviluppare la propria pura e personale ricettività, tradendo le proprie potenzialità fino a costruirsi un falso “Io” per adattarsi a false realtà. Per un Io così separato, diceva Jung, gli dei e i demoni non sono affatto scomparsi, semplicemente hanno assunto nuovi nomi, e io dico che uno di questi nomi può essere “epidemia”, quel contagio psichico che impedisce di vedere l’unità dell’esistenza e riconoscere, non i nostri bisogni ma i bisogni dell’anima; solo una forma di esistenza in cui trova posto la nostra anima ancestrale acquisisce senso e pienezza, altrimenti si è destinati e confinati nelle allucinazioni prodotte dalla tremenda paura della solitudine, una solitudine che non può essere alleviata in nessun modo.
Liquidando il problema dell’anima la si perde, perché non l’abbiamo aiutata, ma sostituita con una spiegazione, con una teoria. Ignorare queste cose significa vivere in totale contraddizione col proprio sistema naturale. La nostra attuale schizofrenia è l’eredità di un’epoca che ha perso il controllo ed è scivolato negli stati deliranti della psiche lasciando emergere tumultuose forze sotterranee prodotte dalla dissacrazione totale, perdendo qualcosa di fondamentale che gli individui stessi non hanno mai capito veramente. L’uomo si è isolato dalla natura, si è alienato da essa nel tentativo di controllarla e sfruttarla, e avendo perso la sua partecipazione emotiva agli eventi naturali è rimasto isolato nel cosmo in balia di sé stesso, nemico di sé stesso, inconscio di sé stesso, creatore di devastazioni ed epidemie. Eppure questa pandemia che ci ha costretti all’isolamento potrebbe averci suggerito qualcosa circa la relatività del tempo estraniandoci da quelle ordinarie funzioni sociali che sono le contingenze a cui siamo costretti a credere rimanendone prigionieri.
Soprattutto la “normalità” dell’uomo moderno che mercifica anche i grandi insegnamenti dell’Oriente, è di fatto fondata sulla repressione delle forme della trascendenza, soffocata dalla “globalizzazione” che ha cancellato l’intima connessione tra tutte le cose, quell’interconnessione che è la concezione centrale del buddhismo. Tutte le più grandi e importanti idee filosofiche e religiose non prendono vita dalla mente “normale” che è contingenziale e razionale, la cosiddetta “coscienza” che forma il “processo di adattamento momentaneo” che dura solo l’arco di una vita.
Ecco allora il perché dello Zen: per ritrovare i valori morali e spirituali eterni che difettano alla coscienza; per riconoscere e celebrare la vita oltre noi, per ritrovare la casa dell’anima, per tornare psicologicamente ad essere come bambini, per recuperare l’energia emotiva che ci è stata rubata dall’illusione ipnotica e stabilire un nuovo e più reale contatto con la natura esterna e quella interna celebrandole come Fondamento di ogni singola esistenza. La ricerca del Fondamento non è spaziale ma intuizione viva prodotta dall’attenzione rivolta all’inconscio che genera la consapevolezza di un nuovo punto di vista.
Ancora una volta è il singolo individuo che è chiamato a iniziare l’opera di cambiamento. Lo Zen può agire nella nostra vita come barriera contro le dilaganti epidemie che avanzano come psicosi di massa; lo Zen può essere un modo per contrastare queste epidemie che sono soprattutto psichiche; lo Zen è fonte di consapevolezza; attraverso lo Zen riconosciamo le buone abitudini, perché l’igiene stessa è più che mai “mentale”. Buddhismo e Zen presero parte attiva in quella controcultura che a partire dagli anni Cinquanta permise nel tempo l’insorgere di nuove tendenze come la riconsiderazione del nostro rapporto col pianeta, il pacifismo, l’ecologia, le medicine alternative, la cura del corpo e dello spirito e il movimento di liberazione sessuale (Santilli, 2019, p.115) Qualcuno ci ha anche ricordato che già cento anni fa Steiner ammoniva di quanto fosse difficile già allora essere umani, e di quanto fosse indispensabile sviluppare capacità spirituali sempre più forti per non soccombere.
Essere mentalmente silenziosi diventa un compito necessario per spezzare l’abitudine a reagire facendoci sopraffare dal ricordo delle parole ereditate dalla cultura. La coscienza, per essere tale, ha bisogno di silenzio mentale e ricettività pura. La mente non condizionata è dotata di un’intrinseca sapienza che è indipendente dai condizionamenti della cultura essendo ispirata dal silenzio interiore della propria natura. Tale mente riconosce che i “giochi” della vita quotidiana non sono altro che giochi. Il saggio e il mistico sanno distinguere la natura del gioco, sanno riconoscere intimamente la configurazione del terreno di gioco in modo da approcciarvisi in maniere adeguate. Al contrario, il sapere astratto ereditato dalla cultura ufficiale ha imposto una serie di programmi che non permettono le distinzioni e la comprensione del meccanismo del gioco e impedisce alla coscienza di superare i limiti e le categorie del “gioco”.
Lo Zen non crea cose nuove, ma aiuta a scoprire quelle autentiche già esistenti. La mente dello Zen è infinitamente più estesa della mente “normale” creata dalle parole. Lo Zen ci induce a prendere coscienza della commedia e del dramma di cui siamo prigionieri e attori, cioè di noi stessi e di ciò che di essenziale ed effettivo esiste, divenire consci cioè, degli strumenti della coscienza come frammento di un processo creativo in attività.
Leggi e/o scarica gratuitamente il capitolo dedicato allo Zen progressivo
Un sintetico resoconto delle pratiche educative con i bambini, troppo spesso portate avanti in maniera automatica o distratta, ci viene in aiuto per consentir, a chi se ne occupa quotidianamente di rifarsi a consigli e suggerimenti espressi con poche parole ed espressioni semplici ma maturate in tanti anni di esperienza e di riflessione.
“Solo se l’educatore è in grado di attivare le potenzialità del bambino avrà compiuto la sua missione di portare alla luce le risorse interiori di cui ognuno dispone. Per realizzare questo, l’adulto non dovrà mai sostituirsi al bambino, così come nessuno puo’ sostituirsi a un altro”.
Una delle doti principali che l’educatore deve sviluppare per il suo lavoro è la capacità di condividere con il bambino le esperienze che emergono quotidianamente al nido. Una condivisione empatica permette all’educatore di vedere le cose dal punto di vista del bambino,adattando sè stesso e il proprio contributo pedagogico al livello del suo interlocutore senza aggrapparsi necessariamente a particolari modelli o dottrine.
Videointervista con Raffaele Santilli – giugno 2013
Progettare significa costruire dei significati e degli obiettivi che devono essere realizzati e valutati. In un secondo momento la costruzione dei significati e degli obiettivi potranno essere documentati nella loro realizzazione.
Progettare significa indagare: per questo sono previsti strumenti osservativi tesi a cogliere i processi di interazione e apprendimento sollecitati nei bambini. Grazie a tali riflessioni sulla prassi educativa sarà possibile valutare il grado di qualità delle proposte e le risposte dei bambini.
La progettualità deve tenere conto di tutte le componenti della personalità in evoluzione del bambino, così da aiutarlo a e-ducerne i contenuti.
Il Progetto educativo deve garantire la costruzione dell’identità personale del bambino attraverso una ricchezza di linguaggi e percorsi di esplorazione e conoscenza.
Il Progetto educativo deve prevedere in che modo si arriverà a certi risultati, evitando che l’offerta sia confusa e approssimativa.
Il Progetto educativo, come qualunque altro progetto, si contrappone all’automatismo del pensiero e dei comportamenti. La creazione e lo sviluppo di un progetto educativo, per un adulto è anche una grande opportunità di mettere in campo le varie sfaccettature dei propri talenti e della propria cultura.
Un progetto educativo deve prevedere degli obiettivi per quel che riguarda la realizzazione delle varie fasi e per quel che riguarda l’intenzionalità strettamente educativa posta in opera dall’educatore, affinché ogni singolo bambino tragga tutti i benefici possibili dalla complessità delle offerte e dalle circostanze.
S’è detto che il Progetto educativo è un’insieme strutturale di interventi e offerte ludico-pedagogiche al cui interno si trovano regole precise riguardo i tempi e i modi di portarli avanti nel rispetto dell’età dei bambini.
Le finalità del Progetto educativo devono garantire un’attenzione mirata alla crescita e allo sviluppo delle potenzialità del bambino in sintonia con la famiglia, alla quale viene offerto un sostegno nell’affrontare i bisogni relativi alla vita e all’educazione dei loro figli, in linea con le conoscenze e i principi di un servizio.
In un contesto specifico come il Nido, progettare significa non dare nulla per scontato.
Percorsi di psicologia e pedagogia per educare e autoeducarsi nell’asilo nido e alla Scuola dell’Infanzia
Questo lavoro, che voglio dedicare a tutte le educatrici motivate, capaci di accrescere parallelamente anche la loro personalità, nasce e si sviluppa da un dubbio rispetto la qualità della relazione dell’adulto col bambino, e ancora più precisamente rispetto a quel tipo di relazione speciale che si instaura tra educatrici di un Nido, e della scuola in genere, e i bambini presenti. Il dubbio è riferito alla motivazione che sostiene quotidianamente le educatrici e quindi l’azione pedagogica, e verte sulla possibilità che ad un certo punto della loro vita professionale le educatrici possano sentirsi all’interno di una grande routine che non capiscono più. Rivolte ai soli bambini e alla ripetitività queste educatrici rischiano di dimenticare o non vedere il tesoro nascosto nella costante attenzione alle circostanze; rischiano cioè di rendere meccanico il loro lavoro e non riconoscere che dietro i loro presunti insegnamenti c’è un mondo ancora tutto in evoluzione che le riguarda personalmente una ad una. Il modo di procedere con sapienza in questo costante e reciproco ‘dare’ e ‘avere’ io lo chiamo “pratica”, in quanto lavoro concreto che produce esperienza personale e consapevolezza di sé. Si tratta di riconoscere, e mi rifaccio ad un’affermazione di C.G. Jung, che quando si parla di educazione ci si riferisce sostanzialmente all’educazione del bambino e si trascura quella dell’adulto in genere. “Nutro quindi il sospetto”, dice Jung, “che il furor paedagogicus non sia che una facile scorciatoia per aggirare il problema sostanziale: “l’educazione dell’educatore”. I bambini si educano per mezzo di ciò che un adulto “è”, non per mezzo delle sue chiacchiere”.
Poiché troppo spesso gli educatori non possono evitare di continuare a trasmettere gli stessi condizionamenti e pregiudizi di cui essi stessi sono prigionieri, la ricerca ha come oggetto un possibile decondizionamento e l’individuazione di un fondamento psicologico grazie al quale sia possibile manifestare ciò che di meglio vi è nell’essere umano, o come dirò più avanti, ciò che di più autentico c’è in ogni essere umano. L’indagine ci conduce alla conoscenza e all’esperienza di noi stessi, a ciò che nel tempo resta immutabile e alle condizioni che nel tempo favoriscono atteggiamenti e comportamenti.
La riflessione dovrebbe prendere in considerazione le premesse dell’attività mentale e le modalità del conoscere. L’educatore, condividendo l’anima del bambino non dovrebbe fare a meno di chiarire la sua stessa natura; talché non ci si prende solo cura del bambino, ma attraverso questo veniamo anche curati, e attraverso di questo ci vengono forniti grandi insegnamenti, maturando come individui attraverso un comportamento che non lascia nulla al caso.
Questo libro, che fa da compendio e sintesi ai miei precedenti “Programmare al Nido” e “L’educazione e lo Zen”, è la manifestazione di un amore che non posso fare a meno di esprimere nonché una riflessione condivisa con il mio gruppo educativo che si è andato formando e trasformando nel tempo e con cui da anni ci confrontiamo anche in momenti insospettabili, quando cioè le giornate sembrano trascorrere senza interventi da me formalizzati o programmati.
Puoi visualizzare e scaricare direttamente il libro
Nell`ottobre del 2004 il sindaco Walter Veltroni inaugura l`asilo nido “Le Farfalle” e l`attigua piccola Scuola dell`Infanzia in cui vengono esposti i lavori di bambini che prenderanno parte al progetto “Il grande cerchio magico“.
Nella stessa occasione vennero invitati i rappresentanti delle varie tradizioni buddhiste, ricerca culturale e politica per lo sviluppo dei processi evolutivi e tematiche sociali soprattutto riferite alle culture alternative.
Visita del sindaco all’asilo nido privato “Le Farfalle” (da redazione Arvalia on line Munic. XV).
“Il nostro obbiettivo- ha detto il sindaco Veltroni, durante la visita fatta Giovedì 14 Ottobre al nido “Le Farfalle”, aperto nel nostro municipio in Via Casetta Mattei, e convenzionato con il Comune- dovrebbe essere quello di rendere la vita dei bambini il più possibile serena e felice.
Aprire posti come questo nido è sempre la cosa più bella del nostro lavoro. E fa sperare che domani avremo anche una città migliore e ragazzi con una visione meno cupa del futuro”.
La visita del sindaco, dell’assesore alle politiche educative Maria Coscia e alle periferie Luigi Nieri, accompagnati dal presidente del XVMunicipio Giovanni Paris e dall’assessore municipale alla scuola Fabrizio Grossi, presso la struttura privata “Le Farfalle”, convenzionata con il Munic.XV per ospitare 40 bambini da 0 a 3 anni, si inserisce nella politica dell’amministrazione capitolina verso servizi di qualità per l’infanzia.
“Per il Municipio, che in questa veste è il controllore della struttura, questo nido- ha detto nell’incontro il presidente Paris- è motivo d’orgoglio. Siamo all’interno di un parco , e si riesce a garantire un buon livello di qualità.”
Il Ghana, una nazione dell’Africa Occidentale sul Golfo di Guinea, deve la sua fama alla ricca fauna selvatica, alle vecchie fortificazioni e alle spiagge appartate, come quelle di Busua. Le città costiere di Elmina e Cape Coast ospitano i posuban (tipici altari), edifici di epoca coloniale e castelli oggi trasformati in musei, che restano a testimonianza della tratta degli schiavi. A nord di Cape Coast, nel vasto Parco Nazionale di Kakum si trova una passerella di legno che attraversa la vegetazione.Capitale: AccraFuso orario: UTC+0Inno nazionale: God Bless Our Homeland GhanaForma di governo: Repubblica presidenziale unitaria
I bambini sono un dono di Dio e sono le basi della nostra sopravvivenza. Non tutti hanno il privilegio di vivere la vita normalmente, per cui l’assistenza e l’amore per i meno fortunati nella società possono fare una grande differenza.
La storia
Nel 1981, a Winneba, la signora Emma Boafo Yeboah viveva con una coppia americana, i signori Etta Ernest. Lei si occupava di sei bambini bisognosi, che erano aiutati dalla coppia americana. Prima della loro partenza, i coniugi americani lasciarono ad Emma dei fondi per permetterle di proseguire gli studi e per altri suoi bisogni,suggerendo di mandare i sei bambini in un orfanotrofio. Ma il suo amore per questi bimbi le fece lasciare gli studie piuttosto utilizzò i fondi per crescerli. Nel 1983, in un periodo di siccità, Emma si trasferì ad Awatu Bawaijase dove il cibo costava relativamente meno e dove viveva in una casa in affitto con dodici bambini bisognosi. Successivamente, nel 1996, l’attuale casa fu terminata e vi si trasferirono. Nel 1994 la casa per bambini fu regolarmente registrata presso il Dipartimento degli Affari Sociali del Governo del Ghana.
La nostra missione
La “Countryside Chuldren’s Welfare Home” (Casa in campagna per il benessere dei bambini), Orfanotrofio di Bawjiase, cerca di venire incontro alle necessità dei bambini bisognosi, crescendoli con le risorse che Dio procura attraverso gli uomini.
I nostri risultati
La Casa è riuscita a registrare un buon numero di casi di sopravvivenza dei bambini abbandonati mandati dal Dipartimento degli Affari Sociali, così come da altre parti, alcuni dei quali arrivati alla casa in condizioni critiche. La Scuola preparatoria della Casa dà una buona base ai bimbi della comunità, come anche dimostrato nei casi in cui passano alla scuola elementare. I bisogni di base come cibo, abiti, un riparo e ricreazione sono procurati a tutti i bambini della Casa grazie alle donazioni di singoli privati, chiese, organizzazioni e famiglie.
Lettera di ringraziamento (31 marzo 2004)
Cari Signori, i Capi Tradizionali, l’Associazione Genitori-Insegnanti, il Comitato di gestione della Scuola, gli insegnanti di tutta la comunità di “Nsemaba” scrivono per esprimere la profonda GRATITUDINE ai bambini ed al management della scuola asilo di Roma “LE FARFALLE” per aver donato giochi educativi al nostro asilo. Ringraziamo anche lo staff di “Ricerca e Cooperazione” per il continuo sostegno alle nostre comunità bisognose e per aver fatto da tramite in questa donazione ai nostri bambini.
La donazione è stata uno stimolo per i bimbi e pertanto la riceviamo con immensa gioia. Siamo rimasti molto colpiti dalla possibilità che la vostra istituzione possa adottare la Scuola Nsemaba, che copre cinque comunità di contadini con tre asili nido. E’ la nostra seria richiesta che simili donazioni vengano offerte anche alle nostre comunità sorelle. Preghiamo anche in futuro ci venga offerta altra simile assistenza.
Lunga vita alla scuola “LE FARFALLE“, a “Ricerca e Cooperazione” e possa Dio benedirvi.
Contiamo molto sulla vostra cooperazione, in fede
(firmato dall’On. John Adukwaw del Distretto Elettorale di Aketaky)
Questo gioco con la sabbia prende le mosse dal coinvolgente piacere che si ottiene dal toccare e manipolare l’elemento più universale che è la terra. La terra è madre in tutti i sensi e non a caso il nostro pianeta prende il suo stesso sostantivo per riconoscersi come l’elemento più diffuso e generativo di sostanza, vegetazione e vita.
Il gioco della sabbia viene anticipato per i più piccoli dal gioco con la farina di polenta per il fatto che a quell’età i bambini mettono tutto in bocca nel tentativo di entrare in relazione con gli elementi e gli oggetti al fine di conoscerli. Spesso il gioco della sabbia è destinato a chi, per mancanza di un giardino adeguato, non può esplorare e manipolare la terra.
Questo vale comunque anche per chi, nei lunghi mesi freddi e piovosi è costretto a restare all’interno del Nido senza il contatto diretto con gli elementi naturali che sollecitano la sfera emozionale del bambino.
La storia del gioco della sabbia ha origini terapeutiche derivanti dalla grande lezione psicologica di Carl Gustav Jung che scorse nell’espressività simbolica del materiale sabbioso la cura di alcuni suoi pazienti creativi. Nel processo di raffigurazione plastica l’analista vuole scorgere il significato simbolico del panorama psichico del paziente per riconoscerne i significati più profondi. Il carattere ‘modellizzante’ della sabbia conduce alla costruzione di possibili configurazioni psichiche prodotte dall’immaginazione spontanea riferita ai processi inconsci che hanno anche a che fare con l’elaborazione dell’Io e le trasformazioni attinenti che nel corso del tempo ne determinano gli sviluppi o meno.
Fu la dottoressa Lowenfeld di Londra ad inaugurare questo gioco col nome di “gioco del mondo” in riferimento ad alcune figurine plastiche, pupazzetti e casette che articolavano uno scenario di vita che il bambino rendeva vissuta sulla sabbia. Presto la misura del gioco venne limitata a quella di una cassetta di legno per poter corrispondere al campo visivo del paziente. Il gioco con la sua modalità in forma terapeutica fu poi sviluppato dalla dottoressa Dora Kalff che ne perfezionò alcuni punti.
Negli anni Ottanta fu Paola Tonelli ad introdurre in maniera più accessibile e pertanto più ridotta il gioco della sabbia nel contesto pedagogico, eliminandone gli aspetti terapeutici relativi all’interpretazione psicologica che giustamente considerò fuorvianti in ambito educativo.
Il contenitore della sabbia, una scatola di legno di 58X45X9, venne ben presto conosciuto col nome di “scatola azzurra” per via del colore intenzionalmente dipinto al suo interno per evocare il cielo e il mare; aiutata da scatolette contenenti animali, casette, pupazzetti, rametti, sassi, conchiglie ecc., per completare il gioco, dette vita ad un laboratorio della sabbia che è entrato a far parte delle attività privilegiate del Nido, sostituendo a volte la scatola di legno con una lettiera per gatti.
Lo spazio limitato della scatola è protettivo, in cui è possibile esplorare il proprio mondo emotivo che molto spesso è traducibile come “madre” nel senso però più ampio della parola di materia e vita. Questa materia e vita contenuta in uno spazio protetto ricrea il contatto di fiducia originario come esperienza dell’attualità. Il bambino è completamente libero nella sua creazione e nella scelta della sua composizione attraverso l’utilizzo dei piccoli oggetti di supporto che gli consentiranno inoltre operazioni di classificazione, sequenze logiche ed elaborazioni di categorie.
In ogni fase esplorativa è come se il bambino ricercasse qualcosa di nascosto che in realtà vorrebbe trovare in sé stesso. La composizione infatti è in continuo mutamento come è lui stesso; ecco perchè gli verrà fornito un congruo numero di elementi (omini, guerrieri, animali selvatici e domestici, alberi, cespugli, fiori secchi, automobili, treni, barche ecc.) e materiali che possano formare colline, rocce, gallerie, fiumi ecc., in modo da dargli la possibilità di far agire in sé stesso quelle figure e situazioni che secondo la sua esperienza e la sua fantasia realizzino per lui le fasi della sua evoluzione.
Gli oggetti miniaturizzati e i materiali naturali che aiutano il bambino ad elaborare le sue fantasie, saranno riposti ogni volta dopo il gioco, in contenitori o scatole di diverso colore per meglio identificarne il differente contenuto suddiviso in categorie (casette – pupazzi – animali… ecc.).
L’esperienza sensoriale espande la mente percettiva del bambino che creando delle storie si mescola con la dimensione onirica del sogno, aiutandolo a conoscere meglio il proprio mondo e la propria identità. A differenza di quanto accade all’adulto la cui identità e la conoscenza reale del mondo dipendono proprio dalla capacità di distinguersi, per il bambino piccolo si tratta di un tipo di conoscenza indiretta dovuta ancora al mantenimento di un contatto diretto con tutto ciò che gli evoca la vicina origine della vita che si connette alla sfera della nuova coscienza.
L’intenzione della Kalff era già quella di cogliere internamente alla raffigurazione la simbologia di un ordine interno relativo all’evoluzione o meno della personalità del bambino, a partire dall’immagine ‘centralista’ della figura materna. Col tempo però, questa centralità “materna” può venire decentrata in favore di un positivo impulso a manifestare qualcosa di intimamente personale, il rapporto col quale prende forma nelle immagini plasmate nella sabbia in tutte le fasi decisive dello sviluppo.
“Spesso i bambini rappresentano nella cassetta di sabbia una scena in un cerchio, o delimitano un territorio quadrato, oppure formano una figura che ricorda un’ovale o una spirale.” (Schlegel)
Il rapporto con il centro, così come viene raffigurato dalle figure plasmate con la sabbia, ha una stretta analogia con certi culti, soprattutto orientali, il cui simbolismo fondamentale evoca un “ordine interno” che è preesistente alla coscienza. Si tratta del rapporto con il centro della psiche umana idealizzato nell’immagine del Mandala, una forma chiusa, compiuta, circolare, che risulta essere un prodotto spontaneo della mente e che rimanda all’idea di ‘perfezione’; questo tipo di immagini sorgono anche e soprattutto attraverso i sogni. Il bambino li riproduce spontaneamente durante il suo lavoro espressivo e creativo essendone ancora completamente e intimamente connesso e influenzato.
Secondo Jung infatti, i Mandala sono “luoghi di nascita”, simboli di processi naturali di trasformazione. La natura utilizza uno schema fondamentale la cui immagine induce a intraprendere una direzione e uno sviluppo ordinato. Si tratta anche spesso di decorsi a spirale che ritroviamo nella crescita delle piante, e infatti il motivo della pianta, dell’albero e del fiore ricorre frequentemente nei sogni o nelle fantasie spontanee rappresentate in disegni.
Il significato psicologico del Mandala è universale, poiché in ogni individuo esiste una disposizione inconscia a riprodurre questo tipo di simbolo sia nella forma che nel contenuto. In fondo all’anima continuano a vivere ed agire contenuti psichici che inducono a ricreare sempre lo stato di unità col tutto. Per noi, dice Jung, queste verità sono andate disperse e per ritrovarle dobbiamo esplorare le antiche culture e consultare gli antichi testi; oppure possiamo trovarne traccia nella produzione spontanea degli uomini creativi, dei pazienti clinici o dei bambini. Ma molto più frequentemente è nei sogni che possiamo riscontrare processi inconsci che si muovono in cerchio attorno a un centro.
Lo sviluppo dell’Io, della coscienza, della personalità e infine dell’individualità è infatti basato precisamente sull’elemento circolare, dell’autarchia” intesa come unità e compiutezza che esprimono la forza della vita in contrapposizione al disorientamento e all’instabilità, e come la ritroviamo nello sviluppo di un’individuazione preannunciata, nei suoi lineamenti evolutivi e decisivi già nella prima infanzia così come lo possiamo vedere col gioco della sabbia in cui viene evidenziato il modo in cui la formazione dell’Io e della coscienza sono ampiamente governate, seppur inconsciamente, dall’autoconfigurazione.
Le tendenze narcisistiche proprie del bambino, che risultano già come riferimento autarchico, costituiscono molto spesso un presupposto essenziale per il successivo autosviluppo.
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